MARZIA GANDINI ARTISTA NELLA NATURA
Le mie opere sono frutto di un processo inconscio, non c’è pianificazione nel modo in cui scelgo i soggetti, le mie opere nascono da immagini che mi colpiscono e che poi ricompongo e dipingo su tela o plasmo in creta.

 

Nella bellezza storica e architettonica di Palazzo Taverna, in via di Monte Giordano a Roma, convive un piccolo studio reso grande dall’arte di chi ci lavora. Infatti, qui dipinge e scolpisce Marzia Gandini, capace di raccontare emozioni e stati dell’animo attraverso opere che esprimono figure e paesaggi in un costante contatto con la natura.

Un evidente percorso di superamento dell’idea di separazione dell’individuo di oggi, osservando ed entrando in contatto con la vita che pulsa intorno a noi, nella vegetazione e negli animali che ci circondano.

Un lungo periodo di permanenza negli Stati Uniti ha costituito una ricca formazione, per poi tornare in Italia e collaborare con rinomate gallerie. Tra queste, una mostra collettiva all’American Academy in Rome curata da Martha Boyden dal titolo Artists’ Choice, dove artisti affermati invitavano giovani emergenti.

In quell’occasione, Marzia Gandini è stata coinvolta da Sandro Chia con la possibilità di presentare un grande trittico, oltre a un’opera a quattro mani. Abbiamo avuto il piacere di incontrare l’artista proprio nel suo studio, avendo la possibilità di ammirare opere complete e in fieri altamente suggestive.

Allora Marzia, come è stata l’esperienza a New York per la tua personale ricerca sia nella pittura che nella scultura?

«È stata un’esperienza molto intensa. I miei lavori erano centrati sull’idea di solitudine e incomunicabilità nei grandi centri urbani. Scattavo foto e poi dipingevo ad olio su tela, rappresentando persone in interni di vagoni della metropolitana o nelle sale d’attesa degli aeroporti, luoghi di transito e di passaggio.
Nel contempo, eseguivo anche ritratti su commissione. Nelle sculture, il tema di fondo era l’idea di contatto e separazione: figure a volte messe in dialogo, altre volte presentate da sole, frammenti colati in gesso o fusi in metallo.
Il centro della mia ricerca è sempre stata un’indagine sulla dimensione umana, che rappresentavo attraverso figure collocate in ambienti urbani o in spazi diradati, come nella serie sulla danza tratta dal repertorio del corpo di ballo di Bill T. Jones, che avevo avuto modo di conoscere durante il Roma Europa Festival.
Ho vissuto molti anni tra l’Europa e gli Stati Uniti, e il concetto di transitorietà è stato alla base del mio lavoro.»

In genere tutti seguono il “sogno americano” di realizzarsi negli USA. A te, invece, cosa ti ha spinto a ritornare a Roma dove ora risiedi stabilmente?

«Negli Stati Uniti ci sono molte opportunità, è una società molto fluida dove tutto scorre veloce, e a volte è difficile trovare un equilibrio tra le tante sollecitazioni.
New York è incredibilmente stimolante ma anche estremamente dura e competitiva: il lavoro è tutto, e cerchi di dare il massimo sacrificando un po’ tutto il resto. Ci sono gallerie importantissime che definiscono il trend, nei musei ci sono mostre straordinarie, a New York l’arte è centrale.
Io trascorrevo la maggior parte del mio tempo in studio, ma a fine giornata mi ritrovavo con amici alle openings delle innumerevoli gallerie e nei musei sparsi in tutta la città o ad altri eventi.
Prima di trasferirmi ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Roma, poi ho seguito a New York dei corsi allo Sculpture Center e sono stata assistente di alcuni artisti, tra cui Izhar Patkin, Kim Crowley, Craig McPherson e Cynthia Karasek.
Essendomi formata in Italia, ho sempre avuto come riferimenti le opere della nostra tradizione classica. A New York, invece, mi sono dovuta confrontare con la molteplicità dei linguaggi dell’arte contemporanea, e questo mi ha fatto avvicinare agli artisti che usano media diversi.
Un periodo di formazione all’estero è sicuramente importante: si entra in contatto con una cultura diversa, che ci obbliga a essere aperti e disponibili verso la diversità, ma impone anche molte difficoltà. Le persone che ho incontrato venivano da tutto il mondo, ma c’era sempre un senso comune di condivisione e di scambio che andava oltre le differenze.
Però già nel 2001 cominciavo a sentire il desiderio di tornare in Europa: avevo nostalgia della mia famiglia e dei miei luoghi. L’11 settembre ci fu l’attentato e crollarono le Torri Gemelle. Mi trovavo in Italia per preparare una mostra personale alla Galleria Vetrina Contemporanea di Elisabetta Giovagnoni e decisi di fermarmi a Roma.

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Rosario Schibeci